LE MIE PAROLE - IL MIO ARTICOLO

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Ccu voli giustizia si la fazzapubblicato su: LE FATE | Gennaio - Febbraio 2013
Un Cristo dal volto subumano, passionale, furente, al limite del rabbioso e del capo-popolo, sobillatore di massa. Un Cristo marxista e rivoluzionario, che emerge dagli antichi versi di un canto popolare siciliano ed infrange, con il suo verbo, quel velo di ipocrita perbenismo di cui sono permeati centinaia di composizioni popolari, tutte improntate al lirismo contemplativo della bellezza della donna, del paesaggio, della natura e dell’amore. Un Cristo che sembra farsi beffa di secoli di dominazioni straniere, di locali dispotismi feroci e sanguinari che hanno forgiato la coscienza popolare isolana di smisurata prudenza e, quindi, omertà, sopportazione e silente sottomissione. Se si fa eccezione per quei quattro peana contro i dominatori stranieri di turno, i Turchi, gli Angioni, i Borboni, il cuvernu Talianu post unitario, nel resto del canzoniere siciliano ci trastulliamo con l’amore in tutte le sue declinazioni . Nel canto di cui parlo, invece, è sparito anche quel tipico sarcasmo meridionale, quella incolpevole metafora a cui il popolo siciliano in genere affida il ruolo di denuncia sociale. Qui ribolle tutta la rabbia, il livore, il desiderio di riscatto, quasi una chiamata alle armi per una rivolta di tutti i vinti, degli oppressi, dei servi della gleba. La costruzione dei versi è mirabile. Un servu tempu fa di chista chiazza, accussì prijava a Cristu e ci dicia: “Signuri ‘u mè patruni mi strapazza, mi tratta comu ‘n cani di la via.” La didascalia scenografica annuncia nel suo incipit una piazza e un servo che prega davanti la croce. La narrazione assume pathos e dignità drammaturgica anche perché costruita sotto forma di preghiera. E’ un servo ad implorare, a piangere, per le insopportabili prepotenze e soverchierie subite dal suo “padrone”. “Tuttu si pigghia ccu la sò manazza, la vita dici che mancu eni mia”. Un servo che rappresenta al Cristo in croce il suo dramma, la sua impossibilità a sopportare oltre, a sopravvivere, poiché anche lamentandosi con il suo aguzzino, ne ha ricavato altro dolore, peggiori maltrattamenti “e chjù mi lagnu e chjù peju amminazza, ccu ferri mi castia a prigiunia”. Giunto al culmine di questo crescente urlo di dolore avanza inesorabile l’invocazione “Undi ju Vi preju, chista malarazza, distruggitila Vui, Cristu, ppi mia!”. Non c’è possibilità di equivoco; il servo stremato e affranto chiede a Cristo di distruggere, Lui che può, Lui che è un Dio, per tutti i diseredati e i sottomessi della terra questa odiata malarazza dei padroni. Mai la mite gente di Sicilia si era spinta così avanti, senza sofismi o strategiche omissioni. Ma la supplica occupa la prima ottava (più due versi di incipit) del canto che, stranamente, è composto da due ottave; in quella che segue, la risposta del crocifisso: “E tu forsi chi hai cjunchi li tò vrazza, oppuru l’hai ‘nchjuvati comu a mia?!” Crediamo di non aver capito; questo è il Dio del perdono che parla, quello del porgi l’altra guancia al tuo carnefice. Sono le sue parole, nella più sintetica e potente invettiva, che si chiedono cosa faccia mai il servo delle sue proprie mani, libere da chiodi, croci e cordami. “Ccu voli la giustizia si la fazza, né speri ca autri la fazza ppi tia!” Il messaggio fa trasalire. Dalla croce l’invito a farsi giustizia, senza alibi, senza attese e speranze di altrui soccorsi. Poi ammette “Ju nun saria supra a ‘sta cruciazza, si avissi fattu quantu dicu a tia…” e la necessaria, conclusiva considerazione “Si tu si omu e nun si testa pazza, metti a prufittu ‘sta sintezia mia”. Il testo del canto fu raccolto da Lionardo Vigo e pubblicato la prima volta nella sua Raccolta Amplissima nel 1857 dall’editore Galatola. Il Vigo era più che sicuro che il messaggio rivoluzionario del canto non sarebbe passato inosservato alla censura borbonica. Infatti lo inserì nella sezione Scherzi, per camuffarne il senso. Ma anche così non riuscì a sfuggire al rigido controllo poliziesco dell’epoca. Il 18 settembre di quell’anno l’Intendente della Provincia di Catania, Angelo Panebianco ne ordinò l’immediato sequestro di tutte le copie. Il Vigo e il suo editore furono convocati dal Reggente Celestino da Terranova che fece loro intravedere la possibilità di un visto di approvazione a condizione che fosse “riveduta” la temibile risposta del Cristo. Ed è a questo punto che la genialità meridionale emerge con tutto il suo fulgore; Vigo capisce che è il momento di piegarsi, anche temporaneamente, a quelle norme liberticide, se vuole salvare e far resistere nel tempo la sua preziosissima raccolta. Scrive di suo pugno una “falsa” ottava che riporta i Borboni al loro sereno esercizio del potere, e anche Cristo ai suoi ecumenici Vangeli. Sarà cura dell’autore e del suo editore pubblicarne la versione originale nell’edizione stampata nel 1870, in cui il Vigo sapientemente annota “Oggi, benedicendo la libertà conquistata dal popolo, per incitamento de’ letterati la pubblico, pregando Dio che lo sgoverno Italico non ci costringa a maledire i sacrifici patiti per ottenerla”. Mai prefazione fu così profetica.
Il canto, giusto per mantenere viva la sua vocazione all’ingiustizia, fu scoperto un secolo dopo dal Mimmo Nazionale. Il Modugno di Volare e Resta ccu me, aveva fiutato il cambiamento post sessantottino nei gusti della gente e, alla ricerca di qualcosa di impegnato e politicamente corretto, si diede ad una riscrittura di quel canto; fu così che compose Malarazza che uscì nel 1976, depositata alla Società Autori, testo e musica (ovviamente) di Modugno; non un cenno all’origine popolare siciliana, a Vigo e alla Raccolta Amplissima.
Si da il caso che eminenti cantautori nazionali e gruppi musicali, ma questa è storia di oggi, abbiano deciso di inserire questo brano nel loro repertorio. Ovviamente nella versione di Modugno, ignorando non so quanto volutamente, la versione originale siciliana. Ma che la Sicilia fosse terra di rapina e di conquista lo avevamo sospettato.
Qui di seguito la strofa scritta dal Vigo in sostituzione alla risposta del Cristo incriminata:
E tu chi ti scurdasti o testa pazza
chiddu ch’è scrittu ‘ntra la liggi mia?
Sempri ‘n guerra sarà l’umana razza,
si ccu l’offisi, l’offisi castja;
a ccu t’offenni, lu vasa e l’abbrazza,
e in Paradisu sidirai ccu mia;
m’inchiuvaru l’ebrei ‘nta ‘sta cruciazza
e celu e terra disfari putìa.

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Rivista LE FATE

Sono stato coinvolto in questa avventura editoriale da Alina Catrinoiu, una ragazza rumena che ha scelto la Sicilia come sua patria d’elezione. Mi ha convinto dell’esigenza di mettere per iscritto e in buona grafia i nostri pensieri, i sogni, le visioni. Noi che, insieme a tanti altri, abbiamo deciso per la nostra Isola, non l’amore incondizionato, irrazionale, fanatico, nostalgico-folk, ma il rispetto per la memoria, il territorio, la cultura e le persone. Abbiamo messo insieme una squadra di donne e uomini (molte di più le donne, per la verità…qui c’è una quota azzurra che andrebbe sostenuta…), organizzati per macro-aree, la musica, l’arte, la letteratura, il cinema, la fotografia, la cultura d’impresa…e abbiamo dato forma grafica ai nostri desideri, alle nostre parole. Ho scelto il nome de Le Fate perché sono caratterialmente attratto dal mondo invisibile e dai suoi significati, e perché sono alla ricerca di quel mondo che a volte vedo distintamente. A volte appena sopra l’orizzonte, a volte sotto i nostri piedi. In ogni paese del mondo c’è un regno delle Fate, fra le pareti delle antiche caverne dimora di monaci bizantini…. o sulle ali delle farfalle che planano sulle zagare degli aranci in primavera; tra i labirinti di luce di un antica masseria con le finestre ferite dal vento o sulle lingue di fuoco che ardono nei rosari delle donne in preghiera. Nelle rime di una filastrocca urlata dai carusi per la strada, o nei sospiri di una ninna-nanna a una picciridda ccu l’occhi sbarati tanti che non vuole dormire Oggi le abbiamo dimenticate, ma non per questo Le Fate non esistono. Soltanto i sogni, talvolta, ne danno testimonianza. Nello stato di semi-coscienza tornano a popolare i nostri pensieri, ci consolano, leniscono le ferite del giorno con le loro carezze. Ma riappaiono anche ad occhi aperti, quando la fervida speranza nella nostra memoria le svela da un arcaico silenzio; e allora ecco che languide melodie si librano, se le sai ascoltare, intonate dal sospiro del loro volto pallido. Non aver paura, non aggrottare le tue ciglia, non porti inutili domande; accoglile senza remore. Loro sono delicate e molto discrete, potrebbero fuggire per non tornare mai più.

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