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IL BRUCO E LA FARFALLApubblicato su: LE FATE ANNO II N.4 | aprile-maggio 2014
IL BRUCO E LA FARFALLA
Avventure melodiche di un teschio

Di morte, di castelli torriati, di teschi, di miniere, di trallalero, ma anche di vita e d’amore, respira un antico canto siciliano, abbastanza tristemente noto. Di curiose domande e strazianti risposte: Murivi senza ‘n toccu di campani. Un’isola, una nazione, tanta gente al mondo, forse, che intona questa melodia che nessuno sa con certezza da dove provenga. Ma su altre domande andiamo a sbattere il cranio, la nostra crozza: Come può un testo dedicato a un dialogo visionario fra un vivo e uno scheletro umano virare ritmicamente e armonicamente verso la spensieratezza, la gioia, l’allegria quasi? È solo la celebre follia della mia gente a renderlo possibile? L’incurabile schizofrenia della luce e del lutto tutto in uno? Come può una raffinata rappresentazione simbolica del trapasso per mano violenta (un teschio di giustiziato, abbandonato sopra una torre “u cannuni”, o il corpo di un minatore davanti l’ingresso della miniera che tutto inghiotte come un cannuni) perdere nei secoli il proprio connotato tragico, e assumere sembianze di tarantella? Il funesto, il macabro che guizza fuori come farfalla leggiadra e divertita da un bruco oramai inutile e pesante cadavere. Sembra la metafora di una terra così tanto abituata a sporgersi sull’abisso da non avvertirne oramai manco il fastidio, il terrore. Danza e si dimena orgiasticamente sulla soglia del suo baratro. Pochissimi siciliani contemporanei conoscono il testo per intero (almeno il frammento più credibile che ci è pervenuto) di Vitti ‘na crozza. Di norma è una canzone che si richiede al chitarrista di turno, sui pullman delle gite domenicali, nel momento di massimo baccano e goliardia. E già sulle prime note ci si comincia a dimenare più o meno goffamente, urlando a squarciagola parole sconnesse e acconciando i muscoli facciali alla più sfrenata allegria; ridendo, a mimare quasi incontri amorosi, scambi di dolci effusioni. A nessuno, credo, balzi alla mente, anche solo per un attimo, che il testo che sta intonando dica letteralmente: Ho visto un teschio, sotto un “cannone”; mi ha incuriosito e ho voluto chiedere…e il teschio a me, con gran dolore, Sono morto senza un tocco di campane. Se ne sono volati via i miei anni, non so dove; ora alla mia età, chiamo la vita e la morte mi risponde. Perché, se così fosse, se ad ogni significante semantico, ad ogni curva della parola che descrive un sentimento, corrispondesse una melodia appropriata, su quelle parole dovremmo andare, intanto, un po’ più lenti, con accordi e intervalli melodici più orientati alla riflessione, quanto meno. Altrimenti sarebbe come musicare il Canto V della Commedia dantesca al ritmo di un twist, o I Sepolcri di Foscolo stile macarena. Certo nell’arte tutto è possibile, ma è anche meglio che sia credibile, accettabile. Siamo quasi certi che all’origine l’intonazione e la melodia, l’aria del canto fosse del tutto diversa; e qualcosa ci dice che anche quel malizioso “trallaleru la lleru la lleru la llà” non fosse previsto nella stesura popolare originale. E se è veramente così (e non abbiamo alcun motivo per dubitarne) cosa avviene allora nella tradizione di così subdolo da poter modificare radicalmente, tradendolo, il contenuto di un messaggio artistico?
Si narra che Vitti ‘na crozza fosse un antico canto di lavoro. Si narra anche che il regista Pietro Germi ne venisse a conoscenza casualmente ad Agrigento, nel 1950, dalla voce di un anziano minatore, tal Giuseppe Cibardo Bisaccia, che assisteva alle riprese de Il cammino della speranza. Il regista aveva richiesto al maestro Franco Li Causi qualche antico canto popolare siciliano da inserire nella pellicola. Ma i brani proposti non lo avevano convinto per niente. Questo testo del minatore invece sì. Esso conteneva, secondo Germi, proprio quel carattere drammatico che il regista voleva rappresentare. Chiamò Li Causi e gli chiese di musicarlo, adattandolo alle esigenze cinematografiche, con una melodia tragico-sentimentale, ma anche allegra, ci tenne a precisare…ché anche allora i film si dovevano vendere e bisognava alleggerire, ieri come sempre, i pesi eccessivi. Li Causi eseguì pedissequamente e fu così che nacque la canzone che tutti conosciamo; appiccicando una cosa su un’altra che non c’entra affatto; sovrapponendo epoche e contesti diversi; mettendo insieme, come si dice ottimamente in volgare, cazzi e sasizzi. Manca ancora il trallalero, però. C’è qualcuno, per la verità, che sostiene che quel motivo non sia per nulla originale, ma che esso stesso sia un rifacimento in chiave “maggiore” di un antico canto di miniera. Per uno strano contrappasso, accadde che anche Li Causi dovette faticare non poco per farsi riconoscere la paternità dalla Siae; il suo nome infatti sparì misteriosamente dai titoli di testa e di coda del film. Autore delle musiche apparve solo Carlo Rustichelli. La pellicola vince l'Orso d'argento al Festival di Berlino del ’51 e il Vitti ‘na crozza viene ascoltato da un pubblico sempre più numeroso. Al punto da avvertire anche l’esigenza di una pubblicazione discografica del brano. A inciderlo per primo ci pensa il tenore Michelangelo Verso, che ne fa un vero successo di vendite. La canzone in questa veste tragico-sentimentale, ma anche allegra fa il giro del mondo, e chi se ne frega del testo dell’anziano minatore. Addirittura Rosanna Fratello, negli anni sessanta, quando c’è una certa attenzione per le culture regionali, ne incide una versione da brava calabrisella qual è; ed ha la geniale idea di interpuntare le strofe con un festosissimo trallalero la llero la llà, tanto per gradire. Il gioco è fatto! La tradizione è stata letteralmente servita e tradita. Un nostro canto popolare è famoso nel mondo, ma in una versione veramente fasulla. Oggi potremmo definirla Made in China. Nel corso dei decenni una distorsione condivisa ha fatto sì che degli ossuti e neri minatori, malvestiti e maleodoranti, fossero invitati a danzare in una discoteca variopinta, a fare il trenino e a ridere come degli imbecilli su un canto di morte e di rassegnata speranza: Ah, si putissi turnari a campari, chiù nun vurria muriri chi pp’amuri. Secondo me, se potesse tornare a vivere, intanto si guarderebbe bene dal suggerire quei versi a persone così poco affidabili.

Carlo Muratori

Vitti 'na crozza sutta a 'nu cannuni.
Fui curiusu e cci vosi spiari.

Idda m' arrispunniu ccu gran duluri:
"Murivi senza 'n toccu di campani.

Si nni jeru, si nni jeru li me anni,
si nni jeru, si nni jeru nun sacciu unni.

Ora ca su' arrivatu a uttant' anni
chiamu la vita e morti m' arrispunni.

Cunzatimi ccu ciuri lu me lettu,
ca di li vermi su' manciatu tuttu.

Ah, si putissi turnari a campari
chiù nun vurria muriri chi pp' amuri."

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Rivista LE FATE

Sono stato coinvolto in questa avventura editoriale da Alina Catrinoiu, una ragazza rumena che ha scelto la Sicilia come sua patria d’elezione. Mi ha convinto dell’esigenza di mettere per iscritto e in buona grafia i nostri pensieri, i sogni, le visioni. Noi che, insieme a tanti altri, abbiamo deciso per la nostra Isola, non l’amore incondizionato, irrazionale, fanatico, nostalgico-folk, ma il rispetto per la memoria, il territorio, la cultura e le persone. Abbiamo messo insieme una squadra di donne e uomini (molte di più le donne, per la verità…qui c’è una quota azzurra che andrebbe sostenuta…), organizzati per macro-aree, la musica, l’arte, la letteratura, il cinema, la fotografia, la cultura d’impresa…e abbiamo dato forma grafica ai nostri desideri, alle nostre parole. Ho scelto il nome de Le Fate perché sono caratterialmente attratto dal mondo invisibile e dai suoi significati, e perché sono alla ricerca di quel mondo che a volte vedo distintamente. A volte appena sopra l’orizzonte, a volte sotto i nostri piedi. In ogni paese del mondo c’è un regno delle Fate, fra le pareti delle antiche caverne dimora di monaci bizantini…. o sulle ali delle farfalle che planano sulle zagare degli aranci in primavera; tra i labirinti di luce di un antica masseria con le finestre ferite dal vento o sulle lingue di fuoco che ardono nei rosari delle donne in preghiera. Nelle rime di una filastrocca urlata dai carusi per la strada, o nei sospiri di una ninna-nanna a una picciridda ccu l’occhi sbarati tanti che non vuole dormire Oggi le abbiamo dimenticate, ma non per questo Le Fate non esistono. Soltanto i sogni, talvolta, ne danno testimonianza. Nello stato di semi-coscienza tornano a popolare i nostri pensieri, ci consolano, leniscono le ferite del giorno con le loro carezze. Ma riappaiono anche ad occhi aperti, quando la fervida speranza nella nostra memoria le svela da un arcaico silenzio; e allora ecco che languide melodie si librano, se le sai ascoltare, intonate dal sospiro del loro volto pallido. Non aver paura, non aggrottare le tue ciglia, non porti inutili domande; accoglile senza remore. Loro sono delicate e molto discrete, potrebbero fuggire per non tornare mai più.

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