LE MIE PAROLE - IL MIO ARTICOLO

Torna indietro →


Lu sabbatu si chiama allegracoripubblicato su: LE FATE | ottobre-novembre 2013
LU SABBATU SI CHIAMA ALLEGRACORI
Cantano, lassù per i monti e nelle valli dei mandorli e dei noccioli, cantano l’amore che gonfia il petto e urge dentro il loro cuore, seppur indurito dalla fatica e dal sudore; cantano perché così si allevia la sfacchinata della levataccia e della interminabile giornata di lavoro, dall’alba al tramonto; cantano i braccianti siciliani Ju sugnu ‘nta la valli di minnola, nun saccju quann’è sabbatu la sira. Non lo sanno quando arriverà il sabato; è per loro una chimera, un orizzonte lontano, una flebile speranza. A tratti si percepiscono come dei reclusi, dei galeotti, dietro le sbarre di una cella, legati a catena ad attendere invano la libertà negata Nun sientu né raloggiu né campani, ca sientu sulu scrusciu ri catini. Eppure cantano; l’attesa riempiono di note e il tempo scivola sulle ali di un ritmo di beguine; curano così l’impazienza, misurando gli attimi che mancano con le sillabe delle strofe di una canzone, fino a giungerci, finalmente a quel Sabbatu che, non a caso, si chiama allegracori, biatu ccu havi beddha la muggheri. E ora il collegamento si fa diretto fra quel giorno tanto atteso e le gioie che esso può dischiudere allo spirito e alla carne. Ma non a tutti, sia chiaro, non a tutti! Ccu l’havi brutta, infatti, ci scura lu cori, mancu spia lu sabbatu quann’eni. Solo una bella compagna fa del sabato la giornata che rallegra il cuore; altrimenti è vana perfino l’attesa. Che vita grama è l’assenza d’amore! L’indigenza e il bisogno allora ci sovrastano, costringendoci a misere occupazioni monetarie, Cu havi rinari picca sempri cunta, cu havi a muggheri bedda sempri canta.
Si cantava in coro questa manciata di versi, alternando le voci in un arcobaleno di timbri e armonie, che seppur intrecciate da voci rozze e incolte, delineavano un tessuto sonoro di immensa ricchezza, e di straordinaria brillantezza. L’animo dell’ascoltatore (ieri come oggi) si disponeva ad una serena allegria e ad una voglia di danza e di vita. Affiancare le voci in coro è un gesto di grande umiltà e fratellanza; è tipica del canto popolare, anche se, bisogna ammettere, il popolo siciliano non è intimamente propenso alla polifonia, alla coralità in genere, sia essa musicale che esistenziale. Predilige le monodie, gli assoli, da passero solitario, quale lo fa la sua insularità, “isolitudine” d’animo. Solo canta il carrettiere, il pastore, l’innamorato sotto la finestra dell’amata e, ovviamente, la madre con le sue avò; la pienezza corale è riservata ai canti dei salinari, dei mietitori, ai canti della vendemmia, delle lavandaie, alle incitazioni dei pescatori nelle tonnare; o ai canti sacri/processionali della Settimana Santa;... Nel canto in questione il coro è d’obbligo; rafforza e dà credibilità al contenuto testuale; qull’ Ju sugnu dell’incipit è in realtà un Nui semu, un grido di popolo, un manifesto di poveri e diseredati, costretti al lavoro lontani da casa per settimane intere e, ciò nonostante, festosi. L’apparente nostalgia del verso viene superata dalla solarità del canto; a conferma di una struttura mentale fra le più complesse e contraddittorie del panorama etnico, il cantore siciliano dissimula la rabbia con l’ironia, sublima il dolore con la prospettiva d’amore. La melodia che questa ciurma di campagnoli intona non è per nulla rabbiosa o melensa; non canta la tristezza e il desiderio struggente del presente; bensì vive già nel futuro, diventando la perfetta colonna sonora del giorno che verrà e che allegrerà loro il core. Le sillabe delle vocali si moltiplicano, si scompongono e si riaggregano, danzando quasi in pregevolissime infiorettature, i melismi, che aggiungono leggerezza e slancio al canto. Si tratta di tecniche arcaiche che la gente di Sicilia ha appreso nel corso dei secoli dai greci, dagli arabi, dagli spagnoli.
Questo canto popolare di lavoro oramai riecheggia solo nelle raccolte di qualche studioso (A. Uccello - Era Sicilia, a cura dell’archivio sonoro siciliano), o nel repertorio dei variopinti gruppi fokloristici che cantano nelle piazze. Come tantissime altre forme di comunicazione, altri riti e antiche usanze della nostra gente, si sono sfaldate lentamente; consunte dalla non frequenza d’ uso e per la mancanza del contesto socio-culturale in cui queste forme artistiche si sono sviluppate.
Oggi l’aspetto corale delle manifestazioni popolari è del tutto assente nei contesti del lavoro; d’altra parte non dev’essere facilissimo cantare in una catena di montaggio, o dentro un petrolchimico, in una acciaieria o su una petroliera…rimangono i momenti degli slogan ritmati negli scioperi o nei cortei di protesta e più comunemente lo stadio; per incitare la propria squadra di calcio, per ironizzare sulla fedeltà della moglie dell’arbitro o per il dileggio di qualche atleta di colore. In tutti questi casi, però, manca l’eleganza, la bellezza del fenomeno sonoro e ad impadronirsi dello stile, quando non è l’ironia, è solo la rabbia per un disagio sociale; non declamare ma reclamare! Accozzaglie di voci sgraziate e stonate, per farsi ascoltare, per dominare sugli altri. Il coro non è solidarietà e pacata condivisione di valori, solarità, proiezione nel futuro; ma solo dita che si stringono a pugno per proteggersi, darsi più forza e fare più male. Cu aviri rinari picca sempri cunta….

Scarica il formato originale dell'articolo title=  


Torna indietro →

Rivista LE FATE

Sono stato coinvolto in questa avventura editoriale da Alina Catrinoiu, una ragazza rumena che ha scelto la Sicilia come sua patria d’elezione. Mi ha convinto dell’esigenza di mettere per iscritto e in buona grafia i nostri pensieri, i sogni, le visioni. Noi che, insieme a tanti altri, abbiamo deciso per la nostra Isola, non l’amore incondizionato, irrazionale, fanatico, nostalgico-folk, ma il rispetto per la memoria, il territorio, la cultura e le persone. Abbiamo messo insieme una squadra di donne e uomini (molte di più le donne, per la verità…qui c’è una quota azzurra che andrebbe sostenuta…), organizzati per macro-aree, la musica, l’arte, la letteratura, il cinema, la fotografia, la cultura d’impresa…e abbiamo dato forma grafica ai nostri desideri, alle nostre parole. Ho scelto il nome de Le Fate perché sono caratterialmente attratto dal mondo invisibile e dai suoi significati, e perché sono alla ricerca di quel mondo che a volte vedo distintamente. A volte appena sopra l’orizzonte, a volte sotto i nostri piedi. In ogni paese del mondo c’è un regno delle Fate, fra le pareti delle antiche caverne dimora di monaci bizantini…. o sulle ali delle farfalle che planano sulle zagare degli aranci in primavera; tra i labirinti di luce di un antica masseria con le finestre ferite dal vento o sulle lingue di fuoco che ardono nei rosari delle donne in preghiera. Nelle rime di una filastrocca urlata dai carusi per la strada, o nei sospiri di una ninna-nanna a una picciridda ccu l’occhi sbarati tanti che non vuole dormire Oggi le abbiamo dimenticate, ma non per questo Le Fate non esistono. Soltanto i sogni, talvolta, ne danno testimonianza. Nello stato di semi-coscienza tornano a popolare i nostri pensieri, ci consolano, leniscono le ferite del giorno con le loro carezze. Ma riappaiono anche ad occhi aperti, quando la fervida speranza nella nostra memoria le svela da un arcaico silenzio; e allora ecco che languide melodie si librano, se le sai ascoltare, intonate dal sospiro del loro volto pallido. Non aver paura, non aggrottare le tue ciglia, non porti inutili domande; accoglile senza remore. Loro sono delicate e molto discrete, potrebbero fuggire per non tornare mai più.

Maggiori info