LE MIE PAROLE - IL MIO ARTICOLO

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Editoriale IX num.pubblicato su: LE FATE | ottobre-novembre 2013
Ho voglia di urlarlo il mio disagio, la mia rabbia. Mi scappa dentro come un desiderio di rivolta che urge e non trova più tempo. Non ce la faccio più a resistere; è finita la pazienza, come le foglie dei melograni d’inverno, come la neve al sole. Mi aggiro come uno zombi fra decine di canali televisivi che ripetono tutti le stesse cose, con le stesse persone, nella stessa maniera. Imbocco senza energia alcuna tutte le uscite senza acquisti delle piazze reali e commerciali. Non voglio più parlare, non voglio più ascoltare. Un mutismo sordo e angoscioso sta attanagliando le mie corde vocali e sta incatenando le mie labbra. Non per carenza di parole o concetti; tutt’altro: s’è creato come un gigantesco ingorgo che ostruisce il normale fluire dei suoni. Ho un buon piccone e devo cominciare ad usarlo. Dovrò scavare una buca dove so io; profonda, dove scendere in tutta solitudine; dove poter gridare a squarcia gola e liberarle le parole, i nomi i cognomi, i responsabili del cupo malessere di questi giorni. Iniziando di buonora e con un buon badile, credo di farcela in mezza giornata. Una profondità di almeno quattro metri, che mi dia la sensazione di trovarmi fuori da questo mondo; anzi no! dentro, sepolto nelle sue viscere, proprio nelle sue contorte budella, per ascoltarne il respiro e coglierne brandelli di verità. Con tutto il mio corpo sepolto in mezzo alla terra, che tutto copre e trasforma, purifica e rigenera. A quella profondità voglio poi scaricarla la mia impazienza, oramai incontenibile, di vivere, di respirare, di sentirmi cittadino normale in una terra normale, di dire le cose come stanno; alla terra, che non potrà mai tradirmi con nessuno, equivocarmi, tacciarmi di moralismo o ideologismo, di retorica o ingenua utopia. La terra saprà ascoltare e custodire, capire anche. Il mio strillare scomposto, ma finalmente libero. Il controcanto rabbioso a tutte le litanie che ascoltiamo e proferiamo, quotidianamente, indistintamente. Voglio restare lì il tempo che ci vuole per una adeguata purificazione. Voglio essere esausto delle mie stesse voci, con la gola dolente e le orecchie stanche; sfinito vorrò chiudere gli occhi e dormire finalmente. Ssssssshhhhh!! Silenzio, silenzio ora. Dovrò ricordarmi prima di sistemare la scala per risalire, non sarà facile altrimenti a mani nude arrampicarmi in quel fosso. Poi con calma e forse un tanticchia di soddisfazione, appena fuori, alleggerito dal pesante fardello, cominciare a ricoprire il buco. Rimettere la terra al suo posto. Richiudere e risigillare con cura tutte le parole che sono esplose in fondo, batterci sopra i piedi per ammassare e solidificare bene la terra.
Ora non resterà che aspettare la primavera. I nuovi fiori, le nuove piantine. Da ragazzi, nelle nostre campagne, strappavamo gli steli di acetosella per fischiarci dentro. Rozzi strumenti a fiato della nostra spensieratezza. Aulos vegetali e commestibili. Sarei curioso d’andare a raccogliere quelli che cresceranno sopra la mia buca. Chissà che da quelle cannucce non fuoriescano ora tutte quelle mie parole rabbiose, minacciose, cattive, urlate con ansiosa impazienza. Ora potrebbero essere diventate un suono dolce, melodioso, sereno. Una antica canzone d’amore con parole di riconoscenza e devozione.
La terra compie, talvolta, questi miracoli.

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Rivista LE FATE

Sono stato coinvolto in questa avventura editoriale da Alina Catrinoiu, una ragazza rumena che ha scelto la Sicilia come sua patria d’elezione. Mi ha convinto dell’esigenza di mettere per iscritto e in buona grafia i nostri pensieri, i sogni, le visioni. Noi che, insieme a tanti altri, abbiamo deciso per la nostra Isola, non l’amore incondizionato, irrazionale, fanatico, nostalgico-folk, ma il rispetto per la memoria, il territorio, la cultura e le persone. Abbiamo messo insieme una squadra di donne e uomini (molte di più le donne, per la verità…qui c’è una quota azzurra che andrebbe sostenuta…), organizzati per macro-aree, la musica, l’arte, la letteratura, il cinema, la fotografia, la cultura d’impresa…e abbiamo dato forma grafica ai nostri desideri, alle nostre parole. Ho scelto il nome de Le Fate perché sono caratterialmente attratto dal mondo invisibile e dai suoi significati, e perché sono alla ricerca di quel mondo che a volte vedo distintamente. A volte appena sopra l’orizzonte, a volte sotto i nostri piedi. In ogni paese del mondo c’è un regno delle Fate, fra le pareti delle antiche caverne dimora di monaci bizantini…. o sulle ali delle farfalle che planano sulle zagare degli aranci in primavera; tra i labirinti di luce di un antica masseria con le finestre ferite dal vento o sulle lingue di fuoco che ardono nei rosari delle donne in preghiera. Nelle rime di una filastrocca urlata dai carusi per la strada, o nei sospiri di una ninna-nanna a una picciridda ccu l’occhi sbarati tanti che non vuole dormire Oggi le abbiamo dimenticate, ma non per questo Le Fate non esistono. Soltanto i sogni, talvolta, ne danno testimonianza. Nello stato di semi-coscienza tornano a popolare i nostri pensieri, ci consolano, leniscono le ferite del giorno con le loro carezze. Ma riappaiono anche ad occhi aperti, quando la fervida speranza nella nostra memoria le svela da un arcaico silenzio; e allora ecco che languide melodie si librano, se le sai ascoltare, intonate dal sospiro del loro volto pallido. Non aver paura, non aggrottare le tue ciglia, non porti inutili domande; accoglile senza remore. Loro sono delicate e molto discrete, potrebbero fuggire per non tornare mai più.

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